Una guerra mondiale prepotente, dalle mani lunghe, che in un giorno di maggio del 1915 raggiunse anche Cortina d’Ampezzo, a quel tempo “Ampezzo del Tirolo”, tranquillo paese ladino amministrato dall’Impero Austroungarico già dal 1511. Bella sfortuna per il paese trovarsi proprio sul confine con l’Italia d’allora, che poco dopo aver dichiarato guerra all’Austria inviò i suoi soldati a varcare il confine di Acquabona. Il 29 maggio 1915 Cortina fu occupata senza colpo ferire: i soldati italiani entrarono senza incontrare avversari e senza sprecar nemmeno un colpo, dal momento che i soldati austriaci e ampezzani si erano già trincerati sulle vette attorno a Cortina adottando una strategia militare di difesa, limitandosi ad impedire il passaggio delle truppe italiane.
Cominciava così, quasi in sordina, la Grande Guerra sulle Dolomiti d’Ampezzo, che per tre lunghi anni diventarono terra irredenta, un trofeo ambito che i due eserciti si giocarono senza esclusione di colpi, alcuni diventati clamorosi, altri leggendari. Faceva male questa guerra tra vicini di casa: ampezzani e austriaci improvvisamente nemici di cadorini e italiani, uomini costretti a spararsi addosso, obbligati a diventare in fretta macchine da guerra, umiliati da fame, freddo e paura, condizioni che, per la tragica regola della vita, eliminavano i meno forti, quelli non all’altezza di una simile pretesa da parte della Madrepatria. Spesso tragicamente “fortunato” era considerato chi se ne andava presto, subito. Magari intontito dalla droga o dalla grappa o rum mandato giù per non sentire il terrore, con le gambe tremanti e negli occhi un ultimo istante di supplica, e quell’ultimo immancabile pensiero rivolto alle persone amate e lontane. Si moriva così, spesso chiamando “mamma!”, in dieci, cento, mille. Bilancio pesante per un battibecco tra regnanti.
Nel 1918, alla fine del conflitto, in Ampezzo cadde un silenzio colmo di dolore e rassegnazione. Reduci e famiglie si trovarono disorientati, ridotti allo stremo e rapidamente costretti a far fronte alle gravi conseguenze lasciate dall’occupazione italiana. Alcuni abitanti non possedevano più nulla, nemmeno una casa, poiché interi villaggi furono distrutti dal fuoco e le campagne danneggiate non permettevano la coltivazione. Anche la natura mostrava le sue ferite senza vergogna: i boschi erano spogli e stanchi ed in molte zone si poteva vedere la carne viva delle rocce: una violenta nudità provocata dallo scoppio delle mine. Alla popolazione si presentava quindi la scelta di emigrare oppure di recuperare e vendere il materiale bellico abbandonato lungo la linea del duplice fronte, un lavoro duro ma indispensabile per l’immediata sopravvivenza. Protagonista di quei tempi fu anche un bambino di dieci anni, Rolando Lancedelli.
Era il 1937 di famiglia povera, anziché frequentare la scuola, per necessità fu mandato dalla nonna a recuperare i resti bellici con gli zii. Non era certo uno spasso vagare per le montagne con le scarpe tenute assieme dal fil di ferro, indossando abiti stracciati. Ma Rolando, non avendo troppe alternative, con una fetta di polenta in tasca per tutto il giorno e munito di un vecchio e pesante piccone che sollevava a malapena, recuperava tutto quel che si poteva, per poi rivendere ai grossisti di metalli che facevano tappa a Cortina ogni sabato. Erano grosse fatiche, ma quando si trovavano tesori come mucchi di cartucce rilucenti, al piccolo Rolando brillavano gli occhi, anche se poi la sera doveva consegnare tutto il bottino in casa, agli zii. Fare il recuperante era un lavoro a tutti gli effetti, forse non troppo divertente per un bambino, ma perlomeno così si riusciva a rimediare qualcosa da metter sotto i denti. La regola del recuperante era “quel che trovi è tuo”.
Col passar del tempo, Rolando apprendeva i piccoli segreti dei recuperanti: come riconoscere i metalli, dove iniziare a scavare, come scaricare le munizioni in sicurezza e separare i diversi materiali. Si recuperavano bombe, filo spinato, rotoli di fil di ferro, corde d’acciaio, stufe, esplosivi, proiettili, tubi, armi, pentole, rame, piombo, alluminio e ottone.
Lo Stato italiano retribuiva anche il recupero delle salme tristemente abbandonate sui campi di battaglia, e trovare uno scheletro era redditizio. 20 lire ( la paga di un operaio al giorno era di 25 lire) Rolando ricorda nei racconti, che molti recuperanti arrivarono al punto di saccheggiare i cimiteri per poter guadagnare quelle poche, indispensabili lire. Un rituale macabro e necessariamente sfrontato.
Dati i tempi, la vita del recuperante era faticosa e piena di pericoli in agguato, dovendo forzatamente camminare tra gli ordigni inesplosi che fecero più di una vittima tra gli sfortunati, o facilmente inesperti, che ebbero la sventura di maneggiarli. Altri rischi erano rappresentati dalla natura stessa della raccolta in montagna; a causa delle sue zone esposte e dai profondi precipizi bastava un solo passo falso per precipitare nel vuoto. Tra i mille ricordi di Rolando, spicca l’episodio in cui un giorno, trovato un pesante rotolo di filo di piombo, per poterlo portare a valle lo sistemò su di un pezzo di lamiera ondulata, che trascinò percorrendo un sentiero lungo il fianco di un precipizio. Volendo spostare il carico con maggior forza, il giovane recuperante iniziò a camminare all’indietro, non accorgendosi di aver messo un piede nel vuoto. Si salvò miracolosamente appendendosi alla corda agganciata alla lamiera, che resse il suo peso non particolarmente abbondante, tenuto conto della dieta forzata dettata dal difficile periodo post bellico. Altra difficoltà da non sottovalutare per i recuperanti erano gli improvvisi cambiamenti meteorologici, tipici dell’alta montagna, come il violento temporale che sorprese Rolando e gli zii mentre rientravano da un recupero. Fortunatamente ebbero la prontezza di ripararsi sotto due massi lasciando il metallo raccolto vicino ad un albero a pochi metri di distanza, che attirò immancabilmente un fulmine accecandoli per qualche minuto, senza ulteriori conseguenze.
Per Rolando la vita di recuperante terminò nel 1943, quando fu costretto a riporre pala e piccone, poiché in quel periodo dopo 8 settembre 1943 le province di Bolzano, Trento e Belluno erano occupate dai Germanici con amministrazione separata dal resto dell’Italia. Il giovane fu arruolato dai tedeschi assieme ad altri coetanei di Cortina, pronto alla malaugurata evenienza di dover partire per il fronte russo vestendo la divisa germanica. Anche per Rolando, nato e cresciuto accanto alla pesantezza di un dopoguerra, partire per il fronte sarebbe stato compito crudelmente estremo, ben distante dal tutto sommato, se pur difficile, mestiere di recuperante di rottami più o meno arrugginiti, ma almeno vicino a casa e alla famiglia.
Rientrato salvo nel 1945, a guerra terminata, un’altra volta si ripresentarono i tempi grami accompagnati dall’inseparabile necessità di sopravvivere, che lo costrinse a vendere quanto rimasto in casa, frutto degli antichi recuperi. Col passar del tempo le montagne, passate al setaccio dai molti recuperanti, erano ormai ripulite dalla maggior parte dei resti di guerra. L’attività di recuperante “per necessità”, adeguandosi ai tempi, si trasformò, impegnando per passione della storia, poche persone nella ricerca di cimeli. Rolando dovette dimenticare le ricerche lungo i camminamenti, i fronti e le trincee nelle amate montagne, maestre di vita e compagne di un’insolita infanzia, per dedicarsi ad attività più redditizie.
Con l’aiuto della moglie Elena, sposata nel 1952, aprì a Cortina uno Ski Bar che costruì con le sue stesse mani, mattone per mattone. Era il 1959, ed unitamente a quest’attività, per incrementare i guadagni, svolse anche la professione di maestro di sci. Rolando fu il primo maestro di sci di fondo di Cortina d’Ampezzo. Ad allietare il matrimonio giunse il figlio, Loris. Si sa come vanno le cose, da cosa nasce cosa, e il piccolo bar si trasformò in ristorante per ospitare visitatori alla ricerca dei piatti della tradizione.
Durante gli scavi per la trasformazione dello chalet, Rolando rinvenne nella terra delle strane pietre, che destarono la sua curiosità. Con l’aiuto di Rinaldo Zardini Folòin, settantenne riconosciuto esperto in materia, scoprì che si trattava di antichissimi fossili. Tra Rolando Lancedelli e lo studioso nacque un prezioso sodalizio, stimolando la ricerca di fossili per Rolando, che tornò tra le amate montagne dolomitiche percorrendo con grande entusiasmo alte panoramiche vie per cercare e frugare nuovamente fra terra e sassi, non più metalli ma pietre rare, rarissime, che raccontano la storia millenaria di quando le Dolomiti erano sommerse da caldi mari con acque ricche di pesci, animali acquatici e piante, trasformati nel tempo di mille e mille anni in fossili di invertebrati marini, megalodonti, lamellibranchi, spugne, echinodermi, bivalvi, gasteropodi, impronte di vegetali, dicerocardi, coralli e cefalopodi.
I migliori esemplari di fossili, trovati da Rolando, rari e rarissimi, assieme ad altri reperti che fanno parte della preziosa collezione scientifica di Rolando Lancedelli, sono esposti nel Museo Paleontologico “Rinaldo Zardini” ubicato nella “Ciàsa de ra Règoles” di Cortina, considerato per questo settore, uno dei più importanti al mondo. Un po’ come per gli esami che non finiscono mai, anche le fatiche non sembravano finire mai per Rolando, che ebbe grande soddisfazione nel riportare alla luce un megalodonte eccezionale, unico esemplare al mondo, alto ben 62 centimetri e con un peso di 60 chilogrammi! Ad uno di questi esemplari il prof. Alassinaz dell’Università di Milano, conferì il nome di “Dicerocardium Lancedelli” per averlo sapientemente individuato ed estratto dalle rocce.
Anno dopo anno Rolando proseguì le ricerche di fossili accompagnato dal più fiero dei discendenti, il primogenito Loris, che dall’età di 6 anni iniziò a seguire, con quel senso di meraviglia che ogni bambino possiede, le orme esperte del padre. Le zone di ricerca dei fossili erano le stesse dove trent’anni prima si recuperavano reperti bellici. Si percorrevano gli stessi sentieri scrutando con occhio esperto gli strati rocciosi per intravedere il misterioso fascino, il magico luccichio di qualche fossile studiando attentamente la natura dell’ambiente e la relativa incredibile conservazione.
Col dei Boss 4 settembre 1964
Sass de Stria 25 settembre 1965
Mentre Rolando estraeva fossili scavando la terra e spaccando rocce, Loris, affascinato dai racconti epici del padre sulla Grande Guerra e sui suoi recuperi, un po’ per gioco, un po’ per curiosità, iniziò a cercare reperti bellici. Chissà se i suoi occhi brillarono come quelli del padre quand’era bambino quando un fortunato giorno trovò una manciata di caricatori, tutti in ottimo stato di conservazione. Fu la scintilla che accese nel bambino la passione per la ricerca degli oggetti appartenuti agli uomini che avevano partecipato alla Grande Guerra. E così, ricerca dopo ricerca, anno dopo anno, ritrovamento dopo ritrovamento, il materiale recuperato si accumulò a tal punto da riempire un’intera stanza! Ogni oggetto portato alla luce racconta una storia, regala un’emozione e fa riflettere sulla vita dell’uomo che l’ha posseduto. Ogni oggetto raccolto ha, ovviamente, oltre al primario valore umano, anche un grande valore storico.
Col passare degli anni Loris, diventato adulto, collezionista ed esperto storico, arricchì la raccolta di famiglia acquisendo migliaia di cartoline e fotografie, commoventi e spiritose lettere e diari dei soldati, giornali, riviste e molto altro materiale abitualmente usato dagli uomini impegnati sia sul fronte italiano che austriaco, oltre che raccogliere interviste dei reduci e testimoni della Grande Guerra.
Nel 1964 11 anni dopo la nascita di Loris, nacque il secondogenito Graziano. Cresciuto a Fossili e cimeli, con il trascorrere del tempo si unì alle ricerche anche Lui, passata la passione dei fossili si aggiunse lo stesso Rolando e la moglie Elena, anch’essa attiva collaboratrice nel recupero di materiale che già aiutava il marito portandosi a valle, su spalla, pesanti fardelli. Dolce e materna, fu lei a trovare lo scheletro di un soldato italiano, porgendo alle sue giovani spoglie la compassione che solo può sgorgare dal cuore di una mamma.
Graziano Lancedelli, vissuto immancabilmente in una famiglia di ricercatori di cimeli e fossili, dopo le iniziali ricerche in montagna si unì al famigliare entusiasmo dedicandosi al collezionismo ed allo studio dell’oggettistica dell’epopea della Grande Guerra.
Il materiale e i reperti recuperati in molti anni, alcuni unici e altri assai rari, stimolarono nei componenti della famiglia, in particolar modo in Loris Lancedelli, che già nel 1970 accarezzava l’idea e il sogno di conservare quanto raccolto in un unico luogo, ovvero in un Museo della Grande Guerra a Cortina d’Ampezzo, e di creare dei percorsi storici recuperando trincee, baracche e testimonianze. Territori che per lui erano diventati archeologia di guerra.
Idea ammirevole, ma al tempo impresa non facile considerando le ferite ancora aperte di un passato tanto doloroso. All’inizio dell’idea molte persone del luogo, in particolar modo i più anziani, erano contrarie all’iniziativa. Per loro un museo di guerra significava far risaltare l’occupazione italiana di Cortina, precedentemente rimasta per quattro secoli territorio dell’Impero Asburgico. Molti vecchi ricordavano spesso, con comprensibile amarezza, gli abusi subiti durante quel periodo e nell’immediato dopoguerra, dalle autorità Italiane, considerando Cortina un territorio di conquista e di saccheggio.
Malgrado tutte le difficoltà, Loris Lancedelli, tenace e fedele al suo ideale intento, approfittò dei molti personaggi politici che frequentano Cortina in tempo di vacanze, non mancando di esporre il suo progetto, ottenendo all’inizio non grande interessamento ed entusiasmo.
Nel frattempo il materiale di famiglia fu esposto in 20 mostre provvisorie riscuotendo, fin dall’apertura, un gran successo sia di pubblico che d’esperti. La prima esposizione realizzata nel 1988 esordì registrando ben 53.000 visitatori! Un risultato incoraggiante, che destò l’interesse sia della popolazione ampezzana che dell’eterogeneo pubblico nazionale e internazionale che una vetrina come Cortina può offrire. Un successo che ha finalmente interessato e posto in movimento sia gli enti locali che i vari singoli esperti e appassionati.
In seguito fu presa in considerazione l’idea di Loris, di creare delle aree archeologiche “ di guerra“. Furono aperti al pubblico i primi due percorsi storici nella zona delle Cinque Torri e sul monte Lagazuoi, luoghi storici in cui le prime linee militari originali furono fedelmente ripristinate e sottoposte a lavori di restauro conservativo.
Dopo poco i ripristini dei percorsi storici, finalmente il 12 agosto 2003 aprì anche il tanto ambito Museo della Grande Guerra in località “In trà i Sass” sul passo Valparola in un luogo suggestivo, dall’aspetto lunare, circondato da trincee, camminamenti e molta storia.
Il Museo è ospitato all’interno di un possente forte Austro Ungarico originale ben ristrutturato, nominato “Tre Sassi”, che custodisce oggetti unici, ognuno con la sua storia da raccontare, ognuno importante per il ruolo svolto, fra cui alcune divise di Curzio Malaparte, scrittore irredentista amico di Gabriele D’Annunzio (Curzio combatté sul Col di Lana), il voluminoso proiettile austriaco da 30,5 (il più grande sparato in zona), le scatolette di cibo dei soldati, le divise militari, le mitragliatrici dei vari eserciti, e poi ancora fotografie, diari e molto altro materiale da vedere. All’allestimento di questa prima parte del museo dedicato alla Grande Guerra s’aggiungono progetti d’ampliamento degli spazi espositivi e nuovi programmi, tra cui quello d’allestire delle mostre a tema.
Un grazie dunque alla famiglia Lancedelli, e soprattutto a Loris che con il suo ammirevole entusiasmo a dato con questo museo l’opportunità di approfondire la storia locale, ma non solo locale, una storia da tramandare alle generazioni future a cui possono partecipare anche i molti turisti e visitatori della valle d’Ampezzo e della val Badia. Visitare un museo di guerra significa prender atto che in quella data regione la guerra è veramente esistita, con tutta la sua crudeltà. Nell’osservare un oggetto bellico, sia un caricatore o la gavetta ammaccata di un soldato, fa pensare, almeno per un attimo, a quanti floridi uomini furono costretti a lasciare i propri affetti, i sogni e le speranze proprio quando la loro giovane vita s’affacciava sul mondo, sulla società. Giovani poco più che adolescenti, padri di famiglia, costretti a lasciare la propria casa e la propria terra senza poter far altro, in molti, troppi casi, che non tornare mai più. Quanti non sono tornati indietro dal terribile teatro della Grande Guerra, interpretato in uno degli scenari più belli al mondo? E quante madri, mogli e figli li hanno pianti? Anche questa storia è tra quelle contraddittorie della vita, tanto orripilante la guerra quanto splendido il paesaggio. Assurdo!
2020 Ⓒ Museo della Grande Guerra "Tre Sassi" Cortina d'Ampezzo